Venerdì 21 settembre presso la Casa Circondariale di Ravenna, ore 20.00 va in scena lo spettacolo
“Libertà va-n cercando, ch’è sì cara…”
Con i detenuti Corrado, Antonio, Aymen, Ciro, Pietro, Marco, Ernesto
Tutor Daniela Bevilacqua, Monica Faiella
Gli allievi del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Ravenna Sara, Francesca, Ilenia, Agnese, Giulia C, Clara, Giulia N
Docente coordinatrice Prof.ssa Domenica Francesconi
con la partecipazione del coro delle voci bianche Ludus Vocalis
direttrice del Coro Elisabetta Agostini
e con la partecipazione di Carlo Garavini, Federica Rallo
assistente alla regia Enrico Caravita
coreografia Mariella Ciccarino
drammaturgia Eugenio Sideri, Carlo Garavini
regia Eugenio Sideri
Despondere spem munus nostrum
Appunti sullo spettacolo
Non lo sapevo. Da tre anni lavoro all’interno della Casa circondariale di Ravenna e non lo sapevo.
Vedevo, ad ogni mio ingresso, le divise azzurre. E ho visto, più volte, lo stemma araldico della Polizia Penitenziaria.
Ma non lo sapevo. Non avevo mai guardato con attenzione. Ebbene quest’anno, casualmente, mi sono soffermato, e ho letto il motto, incorniciato sotto lo stemma, che suona così: “Despondere spem munus nostrum”. Garantire la speranza è il nostro compito.
A questo punto, incuriosito, ho fatto una brevissima ricerca. Se aprite Google e digitate “motto polizia penitenziaria”, si apre una pagina dedicata. Immediatamente compare lo stemma.
E poi questa descrizione:
L’azzurro delle fiamme sull’argento del campo, nel primo, sono i colori tradizionali del Corpo.
La fiamma rappresenta la speranza del recupero, nella società, della persona in espiazione della pena, compito istituzionale del Corpo (art. 27 Cost.).
La fascia diminuita di rosso ricorda il sangue versato dagli uomini del Corpo degli agenti di custodia e dalle vigilatrici penitenziaria – oggi Polizia Penitenziaria – a difesa delle istituzioni democratiche e delle sue Leggi.
La pezza onorevole del palato di quattro, nei colori tradizionali, è simbolo di fermezza e di stabilità nella missione assegnata.
Lo stemma è timbrato dalla corona d’oro dei Corpi di polizia ed è circondato da fronde di quercia e di alloro, legate entrambe da nastro tricolore.
I peculiari compiti istituzionali del Corpo sono anche richiamati nel motto: “Despondere spem munus nostrum” (garantire la speranza è il nostro compito), iscritto nella lista d’oro alla base dello stemma.
Leggo queste parole e rileggo il motto.
E penso al progetto di quest’anno. Uno spettacolo sulla Cantica del Purgatorio di Dante.
E capisco che sono sulla strada giusta. Che niente succede a caso.
Le parole della descrizione, ed il motto stesso in particolare, sembrano uscire dal Purgatorio dantesco.
Giunto al termine della Cantica, Dante dovrà proprio attraversare delle fiamme che non bruciano, ma lo purgano definitivamente per concedergli l’accesso al Paradiso. Ebbene, nello stemma araldico compare appunto “La fiamma, che rappresenta la speranza del recupero, nella società, della persona in espiazione della pena”. Questo è il significato dantesco del purgatorio che racconta. Ad esso aggiungiamo “la pezza onorevole del palato di quattro, nei colori tradizionali, è simbolo di fermezza e di stabilità nella missione assegnata”: non sono i valori che guidano il viaggio/ missione dantesca?
Il viaggio, lo spettacolo, quindi di quest’anno, non poteva che cadere in “mani migliori”.
Speranza. Garantire la speranza. Trovarsi a camminare in attesa.
Il Purgatorio come luogo e come tempo di speranza, in attesa della Redenzione.
La perdita della libertà per riacquisirne una ancora maggiore. Tempi di attesa, tempi di speranza. Tempi di libertà. Tempi di scelta, quindi.
La riflessione si apre non solo a chi sta qui, ma all’esterno. Soprattutto all’esterno. Operare delle scelte, nel giusto. Avere gli strumenti per farlo. Conoscere, capire e decidere.
Il libero arbitrio, dibattuto in più occasioni da Dante all’interno della cantica, si pone tra le mura e tra le sbarre come parola polisemica: grido di rabbia verso il passato, canto di speranza verso il futuro, tiepida invocazione nel presente. Più voci accompagnano le scelte di chi qui sosta. Più voci e più suoni (non è un caso, ma ogni canto del Purgatorio dantesco vede la presenza di un canto, sia dei peccatori che degli creature angeliche).
I ricordi, quindi, si fanno monito; lo sguardo verso l’alto/esterno, si fa speranza. Il canto diventa movimento perenne.
E le scelte si ergono a denominatore di chi le ha compiute.
Ora non è più il tempo per recriminare, ma quello di avanzare. È là fuori (o là in cima, direbbe Dante), che siam diretti. È la luce, ma pure la paura. Cosa succederà poi?
Paradossalmente le mura si pongono a protezione: noi “che siam fuori” siamo protetti da ”quelli dentro” o forse pure “quelli dentro” sono “protetti” da un difficile e complesso ritorno fuori? Reinserimento e recidività… discorsi aperti, tuttora.
Ma il teatro forse deve sempre rassicurarci?I
Il teatro, specie qui dentro, si pone come luogo delle domande. Dalle domande partiamo, ma pure dalle certezze. Perché Dante ce le pone, ce le dona. E noi le agguantiamo per farle nostre compagne nel percorso dello spettacolo.
E tra le certezze troviamo le parole chiave, il tema caro sì a Dante che al lavoro che da anni compie il Coordinamento teatrale emiliano–romagnolo di teatro carcere: padri e figli.
La via verso la salvezza, dice Dante, non la possiamo compiere da soli, abbiamo la necessità di un maestro, una guida, un padre. Ed ecco allora Virgilio accompagnare il poeta per tutto l’Inferno e il Purgatorio, per lasciare il testimone a Matelda, a Beatrice, a San Bernardo.
La relazione di esempio/insegnamento è sempre presente. E attuale. Abbiamo bisogno di qualcuno che cammini con noi, che almeno per un po’ ci accompagni, che ci mostri la possibilità che la strada della vita ci concede.
Ecco i padri ed ecco i figli, camminare qui, sulla scena là, fuori dalla scena, tra le mura e fuori. Torna nuovamente il libero arbitrio dantesco. E torna la scelta, l’esempio, la necessità di non sentirsi soli.
“I figli pagano le colpe dei padri”, diceva la tragedia greca.
Ma c’è un tempo in cui i figli diventano padri. Le colpe, le responsabilità, i doveri, i valori, illuminano la strada. Lasciare che questi lampioni restino accesi, giorno e notte, è un dovere.
E’ nostro dovere, morale, etico e civile.
E la strada da fare è ancora tanta. ma si può fare.
Eugenio Sideri
Regista e drammaturgo, responsabile teatrale del Progetto “Sezione aurea” di Ravenna
all’interno del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna